Dentro le contraddizioni

Centro Missionario Diocesi di Carpi: il viaggio in Malawi con Don Ivan

articolo di Magda Gilioli

Prima di partire tutti chiedevano per quale ragione mettersi in movimento per circa trenta ore di viaggio pre raggiungre il Malawi, dove operano e vivono le Missionarie FALMI, Anna Tommasi e Germana Munari. Quali i motivi che hanno spinto persone così diverse – la sottoscritta con il marito Fabrizio Stermieri, don Ivan Martini (parroco di Roverto – deceduto durante il crollo della sua chiesa durante il terremoto in Emilia, ndr), Gino Galiotto, Fiorella Sitta ed il marito Silvio Nicolini – della parrocchia di Mirandola-  ad andare a visitare la loro Missione? La risposta più ovvia: portare medicinali, ausili ospedalieri, computre, divise per le squadre di calcio delle prigioni, incontrare gli ottanta bambini del progetto di adozione a distanza, visitre l’ospdale di Lunzu per dei lavori di riparazione alle attrezzature, inaugurare il pozzo costruito nel seminario di Blantyre, inaugurare la chiesa di S.Cecilai, visitare sei istituti carcerari, la scuola e la cooperativa per il reinserimento lavorativo degli ex detenuti, inaugurare tre asili nuovi. Di motivi ne avevamo a sufficinza ma il secondo giorno della nostra permanenza già era chiaro che qualcosa di molto più grande ci stava guidando e, tupiti – o meglio, storditi – ci siamo lasciati guidare come erba scossa dal soffio del vento. Negli anni sessanta Carpi divenne famosa per la “treccia”con cui si realizzavano cappelli che proteggevano i contadini, i bambini e le donnedalle insolazioni, per eavere robuste sporte per fare la spesa o altri oggetti utili per la vita quotidiana. Chi penserebbe che dei fragili ramoscelli di paglia che, singolarmente , sono delicatissimi, una volta intrecciati sapientemente tra loro dintetano forti, resistenti e così utili?

Un semplice cappello di paglia è il simbolo del nostro viaggio, un intreccio di vite, storie, sogni, ma anche necessità, gioie e dolori che uniti tra di loro hanno creato una trama di solida e forte umanità.

Il Malawi è un piccolo e sretto paese nel cuore dell’Africa, attraversato dall’omonimo lago grande quasi come un mare: è circondato da Tanzania, Mozambico e Zambia, ha come capitale Lilongwe, la moneta è il Kwacha. Ne servono circa 220 per fare un euro: una mensilità media, per chi ha un lavoro, è di circa 50 euro. La benzian costa circa 2 euro al litro, però non ce n’é e le file di macchine in attesa per poter fare rifornimento sono chilometriche e quando finalmente arriva, i benzinai assoldano dei poliziotti armati di mitra per proteggersi da eventuali assalti. Però quando nei distributori regolari non arriva, ci si orienta al mercato nero dove viene, volentieri, “tagliata” con altri liquidi. Nel frattempo, la maggior parte della popolazione cammina a piedi con la testa carica di canne da zucchero, frutta e verdura da vendere nei mercati ai bordi della strada principale che attraversa il paese. Oppure spinge la bicicletta carica all’inverosimile  di carbone o legna sempre da vendere per cercare di arrivare a sera.

Le verdi piantagioni di the rivestono decine e decine di colline creando paesaggi bellissimi, delle chilometriche coltivazioni di canna da zucchero non si vede la fine.

Eppure, nonostante ciò, lo zucchero non si trova nei negozi perché lo Stato, per rientrare dal debito pubblico, lo vende agli altri Paesi.

Un giorno un ladro è entrato in casa nostra, non ha rubato i due compure portatili nuovi sui tavoli ma ha preso il pacchetto dello zucchero, due dolci, un paio di pantaloni ed un paio di scarpe.

La luce elettrica arriva solo nei centri vicino alla strada, nei villaggi fatti di case con il teto di paglia si utilizza la luce delle stelle nell’incantevole cielo afrcano oppure le lampade ad olio ma, anche per avere questo, bisogna fare la fila nei distributori.

L’aeroporto della capitale è più piccolo di quello di Bologna. Anna riesce a caricare noi e gli immensi bagagli su un furgone per portarci nella casa di Lunzu, impegando circa 6 ore di viaggio. Si farebbe molto prima ma le strade sono piene di posti di blocco. Il tutto per dare multe e raccogliere soldi.

Proprio su questa strada c’è il primo segno di benvenuto che questo Paese ci ricserva: una ragazzina senza una gamba!  Ci fermiamo a caso in uno dei tanti mercati sulla strada a comperare le patate da un pittoreso gruppo di donne e faccio notare ad Anna che tra i loro c’è questa bambina. Lei la prega di venire all’ospedale di Blantyre per dotarla di una protesi. Proprio la matina dell’ultimo giorno ci sentiamo chiamare dalla sua mamma: sono all’ospedale ed hanno bisogno di un paio di scarpe per avere la protesi. Non dimenticherò mai la gioia negli occhi di quella mamma.

Ma non si dimentica neppure il neonato che avrebbe bisogno dell’incubatrice e, a causa di una disposizione di Stato che ne vieta l’uso, lui impega due giorni per morire: lo guardi impotente, con il pensiero ossessivo che da noi si sarebbe salvato.

Celebrare la Messa di Pasqua nel puzzo di una cella afosa adattata, per l’occasione, a cappella, incontrare i detenuti del “braccio della morte” per regalargli un sapone, un pesce secco e due pomodori a testa, ti fa chiedere se dietro ai loro occhi, in realtà, ho incontrato Dio.

Sono belli e agili i ragazzi che aspettano il camion della spazzatura all’ingresso della discarica per saltarci sopra ed essere i primi a poter cercare qualcosa da mangiare; così come quelli che vendono, orgogliosi, gli “spiedini” di topo ai bordi della strada.

Se dieci persone vanno in un loro ristorante per poter mangiare il loro piatto unico fato di polenta bianca (o riso) con leverdure e un poco di spezzatino di carne, non sono certi di trovare il cibo per tutti e, se qualcuno chiede la birra, occorre un “anticipo” per comperarla nel negozio accanto. In compenso però puoi mangiare delle ottime lasagne, il gelato e bere un vero caffè italiano al costo di 7 euro in un bel ristorante della capitale.

Ho visto lavare dentro e fuori le borse di plastica della spesa e stenderle al sole come il bucato nromale, per poterle riusare. Oppure raccogliere l’acqua di risciacquo dei piatti per innaffiare i fiori. Tutti i giorni ho fatto la doccia sotto un rivolo d’acqua mentre fuori la maggior parte delle donne e dei bambini fanno chilometri a piedi con in testa una tanica per raggiungere un pozzo.

Poche ore prima di partire ho assistito alla nascita, con parto cesareo, di una bellissima bambina. La sua pelle era bianca: i bambini africani quando nascono sono bianchi e, dopo qualche ora, diventano neri.

Questa immagine di speranza è il miglior salut che il Malawi poteva farci ma ha anche lasciato nei nostri cuori un grande dilemma: se la nostra pelle all’origine è identica, perché ci trasforma così tanto da dimenticarsene?